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Le parole rimaste - Edit

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372<br />

Capitolo IV | Dall’era del socialismo reale<br />

gli imprimono un’indelebile traccia classicistica, facilmente rinvenibile nei frequenti<br />

riferimenti al mondo greco e latino. La sua scrittura dignitosa e sobria risente<br />

della componente classica, dell’armonia e dell’equilibrio del mondo greco e<br />

latino (e basti pensare al tono prosastico e moraleggiante o a quello discorsivo e<br />

monologante di alcune sue composizioni poetiche), della mitologia, intesa come<br />

ricreazione di un felice mondo-fanciullo, della tensione al “bello” e al “vero”,<br />

dell’importanza fondamentale della “parola” e del “verso”, dal ritmo musicale.<br />

Arrivato nella ex Jugoslavia all’età di vent’anni con le Brigate giovanili di lavoro<br />

nel 1948, si ferma a Fiume, dove per un decennio recita nel Dramma Italiano<br />

diretto da Osvaldo Ramous. Dell’arrivo in Jugoslavia e dei motivi che lo<br />

spinsero a raggiungerla è lo stesso autore a informarci nel romanzo autobiografico<br />

La torre del borgo. Di quest’opera riportiamo qui di seguito una pagina che<br />

per la sua pregnanza memoriale né ha zone d’ombra né è fine a se stessa, poiché<br />

inizia riallacciandosi con franchezza ai giovanili impeti (“dotati di fede più che<br />

di dottrina”) simpatizzanti la guerriglia del condottiero greco Markos e termina<br />

con la riconferma della validità teorica di Marx. Una riconferma rafforzata dalla<br />

condanna dell’“insufficienza delle realizzazioni” degli ideali comunisti e della<br />

“pochezza dei realizzatori” di quegli stessi ideali. E attenta ad astenersi da dissonanti<br />

indulgenze autocritiche dal momento che l’autore non risparmia nemmeno<br />

se stesso, allorquando stigmatizza la condotta dell’intellettuale organico alla<br />

cui categoria è appartenuto (“venne sovrapposta l’ideologia ai fatti: non semplice<br />

colpa, ma negazione in opera del marxismo”).<br />

La mia fuga giovanile da casa non aveva avuto come traguardo la repubblica<br />

popolare in quel tempo ritenuta avamposto del socialismo verso Occidente,<br />

che in parte attendeva e in parte temeva il compimento della rivoluzione.<br />

Ragazzi dotati di fede più che di dottrina, io e altri seguimmo l’impulso di<br />

partecipare all’evento e partimmo con il proposito di combattere agli ordini<br />

dell’idolo di quegli anni, fratello di Ho-Chi-Minh e padre del Che: il generale<br />

Markos. Ci chiamava il fascino di una Grecia proletaria, già amata nei testi di<br />

scuola. Non raggiungemmo mai la meta per un ostacolo inatteso che spuntò<br />

sul nostro cammino: la condanna del Kominform, che ebbe come prima<br />

conseguenza l’interruzione dei rifornimenti in uomini e materiali alla guerriglia<br />

da parte jugoslava. Fu anche la prima sbandata che mi obbligò a una sosta<br />

nel paese che mi aveva accolto, per attendere e capire gli avvenimenti. Attesa<br />

vana e provvisorietà procrastinata. Intendiamoci, i chiarimenti in fasi alterne<br />

non sono mancati e tutti di segno contrario a quello sperato; ma la contraddizione<br />

tra la buona predica e il cattivo esempio non basta per indurre un credente<br />

all’abiura. Così si andava consumando un dramma opposto alla vicenda<br />

dell’esodo. Quelli non sapevano dove andare, io dove restare. È stato il dilemma<br />

dell’intellettuale organico tra la necessità di spiegare l’incongruenza della realtà<br />

socialista e il bisogno di giustificare la propria scelta sempre più simile, appun-

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