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Le parole rimaste - Edit

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340<br />

Capitolo IV | Dall’era del socialismo reale<br />

Già nei racconti più lontani nel tempo, di diversa lunghezza e di vario taglio,<br />

vi è “un filo comune che tutti li unisce e costituisce il leit motiv della poetica del<br />

nostro autore: una fresca e colorita ‘dipintura’ della campagna istriana e insieme<br />

una comunione intima e commossa dell’uomo – e in particolare del fanciullo<br />

– con la natura e con gli esseri, animali e piante, che la popolano.” Questo è<br />

il giudizio critico di Giuseppe Rossi Sabatini 624, mentre l’illustre saggista Geno<br />

Pampaloni lo inserisce nel panorama dei nuovi narratori italiani presentandolo<br />

nel quotidiano «Il Giornale»:<br />

Schiavato è meno scrittore di Tomizza (la sua è la prosa, chiara e monocorde, di<br />

stampo ottocentesco, di chi riferisce), ma ha più da raccontare, vede più da vicino,<br />

la sua materia narrativa è realtà vissuta con attenzione partecipe. Siamo accompagnati<br />

con grande naturalezza entro il mondo contadino, con i suoi personaggi,<br />

i costumi, i riti, le culture, gli animali, il variare delle stagioni e il dolore. Il<br />

tema di fondo, anzi, si direbbe proprio l’iniziazione al dolore, quello che Bilenchi<br />

ha poeticamente detto “il gelo”, la consapevolezza, qui per metà esistenziale,<br />

per metà sociale, di uno sradicamento fatale dalla terra amata 625 .<br />

Fin dai Racconti dignanesi 626– e poi nelle opere successive – compare quindi<br />

l’istrianità di Schiavato, riversata in quella civiltà contadina povera e paziente,<br />

serrata nella fatica e nel lavoro in cui si può ancora ravvisare un’integrità spirituale<br />

e un’umana solidarietà: l’impegno dello scrittore si sviluppa su una matrice<br />

di segno etico, psicologico ed esistenziale, più che storico o politico; il suo realismo<br />

si intreccia con la sua vocazione autobiografica, con la memoria soggettiva.<br />

<strong>Le</strong> storie sgorgano spesso dai ricordi di un’infanzia povera e faticosa, ma anche<br />

sognante e fantasiosa (Il giardino delle fate, Gli arcobaleni, I giochi della solitudine),<br />

dall’intreccio di una sofferta adolescenza con una prematura maturità (<strong>Le</strong> ultime<br />

lacrime della mia fanciullezza), sullo sfondo di una realtà fatta di stenti e miserie,<br />

descritta, attraverso gli occhi incantati del protagonista, con vivezza e puntuale<br />

aderenza. A momenti è come se i “luoghi” stessi del microcosmo istriano evocassero,<br />

in uno snodarsi ininterrotto di ricordi, una galleria di ben definiti per-<br />

624 GIUSEPPE ROSSI SABATINI, Prefazione a MARIO SCHIAVATO, Racconti dignanesi, Biblioteca Istriana n.<br />

2, UIIF, 1981.<br />

625 GENO PAMPALONI, “Cara Istria”, «Il Giornale», Milano, 22 luglio 1982.<br />

626 MARIO SCHIAVATO, Racconti dignanesi, Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume-Università<br />

Popolare di Trieste, LINT, Trieste, 1981. Gran parte di questi racconti erano stati pubblicati tra<br />

il 1968 e il 1974 sulle pagine di «Panorama» e nelle antologie delle opere premiate al concorso<br />

“Istria Nobilissima”. I Racconti dignanesi raccolgono in volume I giochi della solitudine (1972), <strong>Le</strong> ultime<br />

lacrime della mia fanciullezza, Il ritorno (1968), L’uomo con le braccia lunghe (1974) e Campana a morto<br />

(1979). Altri racconti da segnalare sono: La veglia (1969) / Tutti formiche (1970) / Morte di una casa<br />

(1980) / La morte di bara Zaneto Biasiol (1980).

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