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Le parole rimaste - Edit

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Capitolo IV | Dall’era del socialismo reale<br />

All’origine dell’ispirazione dello scrittore c’è il desiderio di “fissare” un materiale<br />

linguistico inespresso che giace in fondo alla coscienza. C’è questa intuizione<br />

in Schiavato della presenza di un substrato di immagini e di ricordi che si sono<br />

depositati, attraverso l’uso irriflesso della lingua nativa, della coscienza di ognuno.<br />

È perciò un fenomeno non solo suo, ma sociale. Nasce così in lui il desiderio<br />

di introdurre nel romanzo una lingua, o più lingue, che si parlano da secoli<br />

ma non si scrivono, allo scopo di vivificare la lingua nazionale. Schiavato è convinto<br />

che, per raccontare Dignano, deve non solo scrivere di Dignano, ma fotografare<br />

il paese e le sue persone, e soprattutto registrarne i suoni; altrimenti,<br />

sarebbe venuto fuori qualcosa di diverso, di meno aderente alla realtà. Schiavato<br />

realizza tale suo desiderio di adesione alla realtà linguistica con un’operazione di<br />

tipo prevalentemente lessicale e fraseologico, non certamente di sintassi. Dunque:<br />

<strong>parole</strong> e modi di dire, espressioni. Significativo è soprattutto il recupero degli<br />

elementi dell’istro-romanzo sepolti nella memoria infantile, che vengono incastonati<br />

e trasportati nell’astratta lingua letteraria nazionale. Schiavato, dunque,<br />

fa dei “trasporti”, trasporta dal dialetto/dai dialetti locali alla lingua qualche forma<br />

là dove gli pare necessario, e sempre col criterio che questi suoi “trasporti”<br />

nel loro contesto debbano riuscire comprensibili al lettore italiano. Per questo<br />

motivo, immediatamente dopo ogni voce, dopo ogni lemma che non sia italiano,<br />

mette la corrispondente voce in lingua italiana. Però, l’operazione linguistica<br />

viene fatta sempre alla luce e nell’alveo della tradizione letteraria italiana, non<br />

certamente della rottura, dell’eversione, della rivoluzione. No, alla luce della tradizione.<br />

Si tratta quindi di tradizione neorealistica, avendo il dialetto fatto la sua<br />

prima comparsa con il neorealismo, per via dell’esigenza di una lettura realistica,<br />

documentaria, nazional-popolare, che ha la tendenza ad utilizzare un linguaggio<br />

semplice, disadorno, antiletterario. Esponenti di spicco, Pavese, per esempio,<br />

Tomizza, che è molto più vicino a noi e al nostro sentire. Pavese infatti è vissuto<br />

fra Torino e Roma, Tomizza invece, da letterato, maggiormente a Trieste.<br />

Era perciò inevitabile che prima o poi il profilo linguistico della nostra regione<br />

e della nostra cittadina avesse riflessi nella creazione letteraria, e quindi venisse<br />

rappresentato da chi come Schiavato svolge il ruolo di memoria scrivente, di sismografo<br />

espressivo del parlare nostrano.<br />

Un impasto espressivo originale, dunque, che, ben lontano da ogni forma di<br />

mimesi cronachistica, dà alla narrativa di Schiavato una particolare coloritura, unità<br />

e coerenza estetica; esprime l’autocoscienza critica e linguistica dell’autore, sempre<br />

aderente a quel registro di grande linearità e semplicità che caratterizza la sua<br />

ampia saga dignanese, volta a decifrare particolari situazione storico-politiche, ma<br />

anche il senso dei destini individuali dei suoi boumbari veraci. Terra rossa e masiere,<br />

con il titolo Črljenica i gromače è apparso in traduzione croata a cura di Igor Grbić<br />

per la collana Istra kroz stoljeća del Čakavski sabor e, in questa versione, ha ricevuto<br />

il premio della Regione Istriana quale miglior libro sull’Istria edito nel 2004.

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