Le parole rimaste - Edit

che ancora sufi o
co la caneta
in una cicareta
suoda 1142.
Venceslao Venci Krizmanich
Si avvertono le riminiscenze di antiche letture. Una potrebbe essere del Leopardi,
che più di altri ha elaborato il mito dell’illusione giovanile spezzata dalla
cruda realtà o dalla Natura matrigna (...«O speranze, speranze; ameni inganni /
della mia prima età !»). Dopo la bella immagine del «girotondo de sbronbole» ,
la seconda strofe si spezzetta nei punti sintatticamente nevralgici fino al climax
dell’ultimo verso, consistente in un’unica parola: “suoda”, vuota la “cicareta”,
vuota per traslato la vita, nonostante il poeta continui «a sufiar co la caneta», a
(cercare di) illudersi.
Un vecio tapo [Un vecchio tappo]
S’cinca de vetro,
trovada per caso
in un vaso
de tempo inbusà in cantina,
‘sta matina,
tegnindote fra i diti,
go visto, siti,
passar in rivista
tuti quei muli
che ieri i giogava in campagneta
drio la scola;
Checo, scava la voga;
Poldo, diseva “neta e pensa”;
Rico, sempre sensa
la s’cinca de man,
sercava de dir “ultimo”
per primo e un altro,
pronto, “pe”.
Xe passai quarantatrè.
1142 Quel che resta [Quello che resta]: Dove siete, / bolle di sapone / che mi portavate a spasso / in un
girotondo / di bollicine? // Di voi, sono rimaste soltanto / le bolle che scoppiano / raccogliendosi
in goccia / dolciastra e amara come / le lacrime / e io / che ancora soffi o / con la cannuccia
/ in una tazzina / vuota».
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