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Le parole rimaste - Edit

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Capitolo VI | Dire in dialetto<br />

Sono delle “mace”, come si direbbe in dialetto, delle macchiette che – degli esseri<br />

umani – hanno qualità e debolezze, sono degli esseri “strampaladi”; vengono<br />

spesso a Pola dallo zio Rico e da sua moglie che prepara loro lauti pranzi per<br />

ripagarli dell’ospitalità offerta al marito in occasione delle sue visite a Trieste. E<br />

non solo loro, arrivano a mucchi per Pasqua e Natale anche altri, tra cui la Stefi<br />

e la Fidensia, e addirittura altri ancora dalla Cecoslovacchia. Tutti a spremere lo<br />

spirito di ospitalità e sacrificio della zia polesana, tutti a mangiare e bere, a vuotare<br />

le “terine de gnochi grandi come la Rena” e a lasciare – alla loro partenza<br />

– gli zii “in braghe de tela”. La Dallemulle estremizza fin sull’orlo del farsesco,<br />

al massimo del patetico-comico, alcuni elementi realistici di ognuno dei personaggi<br />

che ha un qualche tratto che lo singolarizza e lo avvicina alla caricatura,<br />

al grottesco, a quella lente che ingrandisce quasi fino a deformare e far vedere<br />

qualcosa che prima non si vedeva.<br />

Una volta l’autrice si reca con sua madre a Trieste per comperarsi un paio di<br />

scarpe. È la “prima volta” che vede un mondo nuovo, un altro mondo, e nell’impatto,<br />

quasi traumatico, con una realtà sconosciuta, in una dimensione eccitante<br />

e straordinaria, non può resistere a quel “demonietto” (come dice Pirandello che<br />

di umorismo se ne intende) che la spinge a ridicolizzare gli aspetti paradossali e<br />

le manie di zia Berta alla luce di quanto è consueto e comunemente accettato nel<br />

mondo disagiato e povero rimasto oltre confine. È proprio la stravagante, magra,<br />

volgare e brutta zia Berta che le ospita e che insiste a portarle la sera stessa<br />

alla Dreher. Agghindata tragicomicamente, la farneticante parente, invasata dalla<br />

mania di essere una donna in fiore, una Venere bionda, allunga all’orchestrina dei<br />

soldini per farsi suonare la Vedova allegra e lanciarsi a ballare tra le coppie suscitando<br />

l’ilarità di tutta la sala. I toni marcati della caricatura lasciano senza redenzione<br />

finale la protagonista di quella pagliacciata improvvisata.<br />

In Un pensier tira l’altro... , trasportata da un filo logico che esiste solo nella<br />

memoria retrospettiva, l’autrice circuisce alcune immagini legate alla sua infanzia<br />

e all’entourage familiare. Nel “quaderno di pensieri” il passato riemerge per<br />

frammenti, per sbuffi, attraverso fatti e figure di zie e zii, nonni, parenti. A volte<br />

una sola espressione, un detto, una massima, una battuta, una semplice parola<br />

esercitano un forte potere evocativo. In casa la nonna usava la parola blumen<br />

indicando i fiori, anche quelli che appaiono su una foto in cui una bimbetta –<br />

l’autrice – indossa un abitino elegante a fiorellini, un abitino a blumen... Ed ecco<br />

apparire il nonno avvolto in un’aura un po’ misteriosa ed affascinante. Ma sì,<br />

nonno Giovanni parlava tedesco. Era sceso in Istria dalle colline del Trentino,<br />

dal suo paese, Cembra, paladino senza macchia e senza paura, condensazione di<br />

esperienze e di energie, mitico eroe che, in forza delle descrizioni che ne facevano<br />

le zie, sostituiva nell’immaginario della nipotina la figura del padre assente.<br />

“Ricordi che solleticano emozioni” connesse alle prime indelebili esperienze di<br />

gioco e di vita: la corsa pazza da “saltamartin” su e giù per la corriera in attesa<br />

che lo zio autista vuotasse la gamella del pranzo; l’ammaccatura al ginocchio e le

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