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Luigi Gualdo - FedOA - Università degli Studi di Napoli Federico II

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L’analisi delle “nuove formole” del romanzo francese<br />

grigio della strada, una inattesa fanfara. Sembrava nato per il comando, per il dominio.<br />

Vi era un non so che <strong>di</strong> regale in quel suo viso sommamente aristocratico, dal naso aquilino,<br />

dal fino profilo, dalla larga fronte un po' fuggente. Quel «figurino» eccessivo<br />

<strong>di</strong> una moda abolita, reso più stravagante ancora dalla naturale esagerazione del suo<br />

gusto – quel vecchio dandy che rammentava i Borboni nei lineamenti e nell'atteggiamento<br />

il magnifico Murat – mostrava <strong>di</strong> <strong>di</strong>scendere per razza dai gran signori dell'antico<br />

regime, ma <strong>di</strong> aver visto la Rivoluzione ed ammirato gli ultimi eroi dell'impero. Chi<br />

non lo conosceva, vedendolo passare, stupito, non avrebbe potuto indovinare chi fosse<br />

e cosa fosse. 88<br />

E su cui ritorna, poco oltre, nel prosieguo del suo articolo:<br />

Quell'uomo così bizzarramente vestito – tanto teatrale, anche, nella sua apparenza,<br />

che lo si sarebbe potuto prendere talvolta per Frédéric Lamaitre re<strong>di</strong>vivo – stretto nella<br />

sua re<strong>di</strong>ngote à basques, <strong>di</strong> quelle che non si vedono più se non nei <strong>di</strong>segni del Gavarni,<br />

con i calzoni chiari ornati da una banda <strong>di</strong> raso rosa, celeste o verde pallido, assortite<br />

alla cravatta guernita <strong>di</strong> trine, col cappello dalle tese foderate <strong>di</strong> velluto, inclinato<br />

sull'orecchio – quello strano e pomposo personaggio usciva da una misera stanza <strong>di</strong> rue<br />

Rousselet dove viveva solo e poveramente. 89<br />

Partendo dal contrasto tra il suo sentirsi un uomo d’azione e l’effettivo trascorrere<br />

l’intera vita al tavolino, <strong>Gualdo</strong> si sofferma lungamente sulla natura <strong>di</strong><br />

profondo pensatore e stilista <strong>di</strong> primo or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> quel Barbey “nel quale la stranezza<br />

dell'acconciatura non era che una solitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> più!”: nel corso della sua<br />

esistenza, “tutta coperta da un velo”, egli non aveva mai <strong>di</strong>scorso del suo passato,<br />

sorvolando sugli accenni fatti ad eventi trascorsi e sulle confidenze relative<br />

ai propri sentimenti (per i quali, a detta dell’articolista, nessuno aveva altrettanto<br />

pudore); al contrario lo scrittore normanno preferiva chiudersi in casa e lavorare,<br />

alieno dal rumore e dalla folla, proiettando la realizzazione dei propri sogni<br />

all’interno dei suoi libri, “da lui altrettanto vissuti quanto scritti”. 90<br />

Su tale identificazione tra il narratore e l’uomo che vive <strong>di</strong> ciò che racconta<br />

si impernia l’intero ragionamento <strong>di</strong> <strong>Gualdo</strong>, che cerca <strong>di</strong> fornire al suo pubblico<br />

una chiave <strong>di</strong> lettura per comprendere davvero l’autore da lui commemorato,<br />

senza cadere nelle banalità e nei luoghi comuni. Il nucleo del suo <strong>di</strong>scorso consiste,<br />

infatti, nel sottolineare il ruolo giocato dalla letteratura nell’esperienza au-<br />

88 L. GUALDO, Barbey d’Aurevilly, cit., p. 1.<br />

89 Ibidem.<br />

90 Ivi, p. 2.<br />

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